Relazione sull'incontro " tradizioni popolari " con il professor Ignazio Buttitta, docente di storia delle tradizioni popolari dell'Università di Palermo.
Ancora oggi in Sicilia assistiamo a pratiche, riti e cerimonie fortemente collegati ad una civiltà agro-pastorale.
Ne sono un esempio: l’accensione di falò, i balli, le processioni con le statue dei santi, i mascheramenti rituali, ecc…
Tutto ciò testimonia come la cultura religiosa tradizionale sia fortemente radicata nel territorio, e nel tempo ha saputo adeguarsi al cambiamento delle condizioni socio-economiche.
Ciò accade sia perché queste credenze ancora riescono a dare risposte alle forme di precarietà che affliggono la società siciliana, sia perché le varie comunità isolane riescono a custodire e a mantenere una memoria culturale avvertita come il fondamento dell’”identità siciliana”.
Molto spesso succede che queste tradizioni vengano strumentalizzate, commercializzate e spesso profondamente modificate per la promozione del turismo e vengano così svuotate di ogni elemento simbolico.
La maggior parte delle feste e degli eventi rituali sono connessi alle scadenze dei tradizionali cicli agro-pastorali e sono riferimenti simbolici delle forme di produzione.
Il calendario cerimoniale siciliano è strettamente connesso al ciclo del grano e al suo interno si possono individuare tre periodi.
I cicli festivi che si incrociano con questi tre periodi sono: Ognissanti-Commemorazione dei defunti, San Giuseppe-Settimana Santa, Sant’Antonio da Padova-San Calogero.
Il primo è legato alla semina del frumento, il secondo alla raccolta e il terzo all’immagazzinamento.
Tra i molteplici elementi che compongono vari rituali possiamo osservare i mascheramenti cerimoniali, che vanno dal semplice occultamento del viso al rivestimento dell’intero corpo con semplici indumenti.
I mascheramenti non sono gli elementi più importanti dei rituali, e infatti quasi sempre sono accompagnati da giochi, danze, particolari cibi.
Alcune tra le performances carnascialesche che hanno maggiormente attratto l’attenzione degli studiosi sono: le maschere musicanti dei Pulcinelli di Palermo e dei Ciuri di pipi di Messina che attraversano l’abitato con apposite formule canore e beni alimentari; la pantomima del “Mastro di Campo” di Mezzojuso, vera e propria rappresentazione di morte e rinascita dell’eroe cosmogonico; i balli dei Picurara di Antillo, uomini mascherati di tela bianca e coperti di giubbotti di orbace e brache di pelle caprina, che danzano la contradanza insieme alle loro dame, anch’esse mascherate, al suono della ciaramella e di dodici campanacci che ciascuno di essi recava appesi alla cintola.
I mascheramenti, al pari degli altri simboli rituali caratterizzanti le celebrazioni carnascialesche siciliane, paiono tutti riconducibili alla sintassi propria delle feste di chiusura e apertura di un ciclo, ossia di rifondazione ciclica del tempo, e finiscono con il proporre l’istituto carnevalesco, nel suo complesso, come “modello esemplare” delle cerimonie di Capodanno.
Un’altra ricorrenza molto persistente in Sicilia è quella del “fuoco festino”.
I falò cerimoniali sono per lo più accesi nel periodo invernale, in particolare per le feste dedicate all’Immacolata Concezione, a Santa Lucia, per Natale, a Sant’Antonio abate, a San Giuseppe.
I falò sono fatti generalmente la vigilia della festa, e sono accompagnati da altre funzioni rituali come le processioni, i salti sul fuoco, le danze.
Le ricorrenze cerimoniali del calendario festivo siciliano sono molto spesso caratterizzate dalla preparazione e dal consumo di peculiari alimenti, e questi divengono quasi il simbolo della stessa festa.
Così è nel caso di San Giuseppe, della Pasqua, della Commemorazione dei defunti, dell’Immacolata, di Santa Lucia.
Il pane è l’elemento più riscontrabile nei riti, ciò è dovuto al fatto che il Meridione, e la Sicilia in modo particolare, sono terre che già dall’antichità e fino al secondo conflitto mondiale, sono state privilegiate per la produzione di grano duro.
Uno dei casi più noti su cui si è addensata un’ampia letteratura sia documentaria che rappresentativa, è quello dei Pani di San Giuseppe.
La visione del mondo di matrice agro-pastorale che persiste nei riti pasquali e quelli dedicati al Crocifisso e a San Calogero si lascia cogliere anche nelle cerimonie dedicate a San Giuseppe.
Non a caso pani plasticamente lavorati sono elemento caratterizzante e imprescindibile degli “altari” e delle “mense” allestiti in onore del Patriarca di tutta la Sicilia come in altre regioni meridionali; complessi artefatti cerimoniali quali peraltro decorati con numerosi elementi vegetali destinati ad ospitare gli alimenti ritualmente consumati dalla “Sacra Famiglia”, dagli “Apostoli”, dai “Virgineddi”, impersonati da poveri e bambini\e non di rado orfani.
I pani dunque sono destinati ad essere offerti e condivisi con figure che in ragione della loro “alterità” sono demandate, nei contesti cerimoniali siciliani, e non solo, a rappresentare entità extraumane, in primo luogo i defunti.
Va osservato che San Giuseppe è uno tra i Santi che gode in Sicilia di maggiore venerazione.
Il Patriarca è protagonista di particolari festeggiamenti in numerosi paesi dell’Isola, in taluni più di una volta all’anno. Le celebrazioni in suo onore non cadono solo in prossimità del 19 marzo, ma ricorrono anche nei mesi di aprile e di maggio e nei mesi estivi, periodo in cui molti paesi della Sicilia si ripopolano di emigranti (e turisti) che ritornano anche per celebrare Santi patroni e protettori.
Oltre alla processione con la statua ed il fercolo, tra i tratti rituali che più diffusamente caratterizzano le celebrazioni di San Giuseppe vi sono: le questue e le offerte di frumento, le “tavole” e gli “altari”, le sacre rappresentazioni, l’accensione di falò.
Insieme ai caratteri ricorrenti nel culto pubblico di numerosi Santi, riconducibili a una pratica della fede di matrice ecclesiastica, le celebrazioni del Patriarca presentano dunque un simbolismo rituale di ascendenza precristiana, segnatamente di tipo agrario/ctonio.
Il periodo dell’anno in cui cade la celebrazione del Santo è d’altronde di particolare interesse per la vita agricola, venendosi a inserire nel calendario rituale contadino come un periodo di marca.
La festa di San Giuseppe in Sicilia si configura cioè come una vera e propria cerimonia di passaggio stagionale e sancisce, ribadendolo nella declinazione di un chiaro simbolismo, l’avvenuto passaggio tra l’inverno e la primavera.
In quanto cerimonia di limite, di confine, la festa di San Giuseppe contiene elementi pertinenti ai periodi che la precedono e che la seguono.
La festa del Patriarca è cioè l’ultima festa invernale e la prima festa primaverile.
Questo suo intimo carattere di cerimonia di passaggio si rende tra l’altro esplicito nella diffusa pratica delle vampi.
I falò, in genere accesi la sera del 18 marzo, vigilia della festa, sono infatti avvertiti come l’ultimo fuoco dell’inverno.
Segnano la fine del freddo e quindi lo spegnimento definitivo dei bracieri.
Il valore di spartiacque del tempo, di festa di capo d’anno tesa a ribadire l’irrinunziabile rapporto tra uomini e Santi e rifondare le relazioni sociali e l’ordine del tempo, si legge con ancor maggiore evidenza nell’uso delle “tavolate” e nel sacro banchetto di cui esse sono fatte centro.
In onore del Patriarca venivano preparati ricchi e complessi “altari” e “tavole” sui quali facevano bella mostra pani decorati e vivande insieme a immagini del Santo e della Sacra Famiglia. Anche oggi gli “altari”, più spesso allestiti in casa da chi ne ha fatto voto con l’aiuto di amici e parenti, sono teatro della cosiddetta “cena” o “mmitu” che si svolge in forma di rappresentazione sacra.
Protagonisti di questo rituale sono i Santi, tre persone, solitamente tra le più povere della comunità locale, che rappresentano San Giuseppe, Gesù Bambino e la Madonna.
Alcune volte i personaggi sono cinque, comprendendo assieme ai membri della Sacra Famiglia i genitori di Maria, Sant’Anna e San Gioacchino.
I Santi possono essere accompagnati anche da i “virgineddi”, un numero variabile di individui, in genere bambini, non di rado orfani, tradizionalmente provenienti dalla famiglie disagiate del paese. L’allestimento delle “tavolate” richiede in alcuni luoghi che l’offerente raccolga i fondi necessari sottoponendosi a giri di questua.
Al di là delle diverse tradizioni locali, elemento costante della tavola di San Giuseppe è il pane plasticamente lavorato, un pane che, esteticamente qualificato come “speciale”, vede potenziata la sua già fortissima pregnanza sacrale attraverso un simbolismo che declina un linguaggio denso di suggestioni iconologiche.
La coesistenza di elementi immediatamente riferibili al culto cristiano, seppur nelle sue forme “popolari”, con elementi di evidente matrice agraria (frutti, animali, astri), insieme a tutti gli altri peculiari simboli rituali che hanno centro nella “tavola”, tradisce la lontana origine del rito e la sua prima essenza di microcosmo estraneo alle regole del “mondo”, luogo elettivo cioè del dialogo tra uomini e dèi, garanti questi della ri-produzione della vita.
Non è casuale, né spiegabile solo con motivazioni caritatevoli ed esigenze redistributive, che siano i poveri, spesso bambini poveri (santi, virgineddi, apostoli, ecc.), ad essere invitati presso le “tavole” e gli “altari” a consumare un pasto di altissimo significato simbolico la cui connessione con il ciclo della produzione e la richiesta di garanzia e abbondanza è esplicita. Siamo, infatti, nel momento di massima carestia, sono esaurite le scorte invernali.
Si deve dunque garantire un raccolto abbondante.
Ecco allora le offerte alimentari ai poveri/defunti, la condivisione aurorale del cibo, la redistribuzione simbolica e, soprattutto, lo spreco, ad auspicare e prefigurare la futura ricchezza e attestare a un tempo la vigente povertà attraverso l’esibizione di verdure di campo: unico cibo abbondante in un periodo di carestia.
Un’altra importante tradizione popolare siciliana è quella dei “Pupi Siciliani”, Pupi di varia forma e dimensioni (dipende da quale parte della Sicilia provengono) che tradizionalmente rappresentano scene cavalleresche.
Con il passare del tempo questa tradizione è stata profondamente modificata.
Ciò accade molto spesso per cause economiche (e quindi per un profitto turistico), che svuotano quasi del tutto il significato simbolico di questa tradizione popolare.
C’è però chi rinnova la tradizione adeguandola ai tempi.
E’ il caso di Angelo Sicilia, puparo e appassionato studioso della tradizione marionettistica siciliana, che ha ideato i “Pupi Antimafia”, un ciclo epico in cui gli eroi della lotta contro Cosa Nostra prendono il posto dei paladini di Francia.
Infine è importante dire che l’identità di un luogo rimanda a quelle dimensioni del sé che definiscono l’identità personale dell’individuo in relazione all’ambiente fisico attraverso un complesso insieme di idee, credenze, preferenze, tradizioni, sentimenti, valori e mete, consapevoli e inconsapevoli, unite alle tendenze comportamentali e alle abilità rilevanti per tale ambiente.
E’ perciò fondamentale mantenere e custodire in sé le tradizioni del proprio popolo, della propria terra di appartenenza, cercando però di condividere tutto ciò con altri popoli, arricchendo sempre più il nostro bagaglio culturale e quindi la nostra identità.
Ne sono un esempio: l’accensione di falò, i balli, le processioni con le statue dei santi, i mascheramenti rituali, ecc…
Tutto ciò testimonia come la cultura religiosa tradizionale sia fortemente radicata nel territorio, e nel tempo ha saputo adeguarsi al cambiamento delle condizioni socio-economiche.
Ciò accade sia perché queste credenze ancora riescono a dare risposte alle forme di precarietà che affliggono la società siciliana, sia perché le varie comunità isolane riescono a custodire e a mantenere una memoria culturale avvertita come il fondamento dell’”identità siciliana”.
Molto spesso succede che queste tradizioni vengano strumentalizzate, commercializzate e spesso profondamente modificate per la promozione del turismo e vengano così svuotate di ogni elemento simbolico.
La maggior parte delle feste e degli eventi rituali sono connessi alle scadenze dei tradizionali cicli agro-pastorali e sono riferimenti simbolici delle forme di produzione.
Il calendario cerimoniale siciliano è strettamente connesso al ciclo del grano e al suo interno si possono individuare tre periodi.
I cicli festivi che si incrociano con questi tre periodi sono: Ognissanti-Commemorazione dei defunti, San Giuseppe-Settimana Santa, Sant’Antonio da Padova-San Calogero.
Il primo è legato alla semina del frumento, il secondo alla raccolta e il terzo all’immagazzinamento.
Tra i molteplici elementi che compongono vari rituali possiamo osservare i mascheramenti cerimoniali, che vanno dal semplice occultamento del viso al rivestimento dell’intero corpo con semplici indumenti.
I mascheramenti non sono gli elementi più importanti dei rituali, e infatti quasi sempre sono accompagnati da giochi, danze, particolari cibi.
Alcune tra le performances carnascialesche che hanno maggiormente attratto l’attenzione degli studiosi sono: le maschere musicanti dei Pulcinelli di Palermo e dei Ciuri di pipi di Messina che attraversano l’abitato con apposite formule canore e beni alimentari; la pantomima del “Mastro di Campo” di Mezzojuso, vera e propria rappresentazione di morte e rinascita dell’eroe cosmogonico; i balli dei Picurara di Antillo, uomini mascherati di tela bianca e coperti di giubbotti di orbace e brache di pelle caprina, che danzano la contradanza insieme alle loro dame, anch’esse mascherate, al suono della ciaramella e di dodici campanacci che ciascuno di essi recava appesi alla cintola.
I mascheramenti, al pari degli altri simboli rituali caratterizzanti le celebrazioni carnascialesche siciliane, paiono tutti riconducibili alla sintassi propria delle feste di chiusura e apertura di un ciclo, ossia di rifondazione ciclica del tempo, e finiscono con il proporre l’istituto carnevalesco, nel suo complesso, come “modello esemplare” delle cerimonie di Capodanno.
Un’altra ricorrenza molto persistente in Sicilia è quella del “fuoco festino”.
I falò cerimoniali sono per lo più accesi nel periodo invernale, in particolare per le feste dedicate all’Immacolata Concezione, a Santa Lucia, per Natale, a Sant’Antonio abate, a San Giuseppe.
I falò sono fatti generalmente la vigilia della festa, e sono accompagnati da altre funzioni rituali come le processioni, i salti sul fuoco, le danze.
Le ricorrenze cerimoniali del calendario festivo siciliano sono molto spesso caratterizzate dalla preparazione e dal consumo di peculiari alimenti, e questi divengono quasi il simbolo della stessa festa.
Così è nel caso di San Giuseppe, della Pasqua, della Commemorazione dei defunti, dell’Immacolata, di Santa Lucia.
Il pane è l’elemento più riscontrabile nei riti, ciò è dovuto al fatto che il Meridione, e la Sicilia in modo particolare, sono terre che già dall’antichità e fino al secondo conflitto mondiale, sono state privilegiate per la produzione di grano duro.
Uno dei casi più noti su cui si è addensata un’ampia letteratura sia documentaria che rappresentativa, è quello dei Pani di San Giuseppe.
La visione del mondo di matrice agro-pastorale che persiste nei riti pasquali e quelli dedicati al Crocifisso e a San Calogero si lascia cogliere anche nelle cerimonie dedicate a San Giuseppe.
Non a caso pani plasticamente lavorati sono elemento caratterizzante e imprescindibile degli “altari” e delle “mense” allestiti in onore del Patriarca di tutta la Sicilia come in altre regioni meridionali; complessi artefatti cerimoniali quali peraltro decorati con numerosi elementi vegetali destinati ad ospitare gli alimenti ritualmente consumati dalla “Sacra Famiglia”, dagli “Apostoli”, dai “Virgineddi”, impersonati da poveri e bambini\e non di rado orfani.
I pani dunque sono destinati ad essere offerti e condivisi con figure che in ragione della loro “alterità” sono demandate, nei contesti cerimoniali siciliani, e non solo, a rappresentare entità extraumane, in primo luogo i defunti.
Va osservato che San Giuseppe è uno tra i Santi che gode in Sicilia di maggiore venerazione.
Il Patriarca è protagonista di particolari festeggiamenti in numerosi paesi dell’Isola, in taluni più di una volta all’anno. Le celebrazioni in suo onore non cadono solo in prossimità del 19 marzo, ma ricorrono anche nei mesi di aprile e di maggio e nei mesi estivi, periodo in cui molti paesi della Sicilia si ripopolano di emigranti (e turisti) che ritornano anche per celebrare Santi patroni e protettori.
Oltre alla processione con la statua ed il fercolo, tra i tratti rituali che più diffusamente caratterizzano le celebrazioni di San Giuseppe vi sono: le questue e le offerte di frumento, le “tavole” e gli “altari”, le sacre rappresentazioni, l’accensione di falò.
Insieme ai caratteri ricorrenti nel culto pubblico di numerosi Santi, riconducibili a una pratica della fede di matrice ecclesiastica, le celebrazioni del Patriarca presentano dunque un simbolismo rituale di ascendenza precristiana, segnatamente di tipo agrario/ctonio.
Il periodo dell’anno in cui cade la celebrazione del Santo è d’altronde di particolare interesse per la vita agricola, venendosi a inserire nel calendario rituale contadino come un periodo di marca.
La festa di San Giuseppe in Sicilia si configura cioè come una vera e propria cerimonia di passaggio stagionale e sancisce, ribadendolo nella declinazione di un chiaro simbolismo, l’avvenuto passaggio tra l’inverno e la primavera.
In quanto cerimonia di limite, di confine, la festa di San Giuseppe contiene elementi pertinenti ai periodi che la precedono e che la seguono.
La festa del Patriarca è cioè l’ultima festa invernale e la prima festa primaverile.
Questo suo intimo carattere di cerimonia di passaggio si rende tra l’altro esplicito nella diffusa pratica delle vampi.
I falò, in genere accesi la sera del 18 marzo, vigilia della festa, sono infatti avvertiti come l’ultimo fuoco dell’inverno.
Segnano la fine del freddo e quindi lo spegnimento definitivo dei bracieri.
Il valore di spartiacque del tempo, di festa di capo d’anno tesa a ribadire l’irrinunziabile rapporto tra uomini e Santi e rifondare le relazioni sociali e l’ordine del tempo, si legge con ancor maggiore evidenza nell’uso delle “tavolate” e nel sacro banchetto di cui esse sono fatte centro.
In onore del Patriarca venivano preparati ricchi e complessi “altari” e “tavole” sui quali facevano bella mostra pani decorati e vivande insieme a immagini del Santo e della Sacra Famiglia. Anche oggi gli “altari”, più spesso allestiti in casa da chi ne ha fatto voto con l’aiuto di amici e parenti, sono teatro della cosiddetta “cena” o “mmitu” che si svolge in forma di rappresentazione sacra.
Protagonisti di questo rituale sono i Santi, tre persone, solitamente tra le più povere della comunità locale, che rappresentano San Giuseppe, Gesù Bambino e la Madonna.
Alcune volte i personaggi sono cinque, comprendendo assieme ai membri della Sacra Famiglia i genitori di Maria, Sant’Anna e San Gioacchino.
I Santi possono essere accompagnati anche da i “virgineddi”, un numero variabile di individui, in genere bambini, non di rado orfani, tradizionalmente provenienti dalla famiglie disagiate del paese. L’allestimento delle “tavolate” richiede in alcuni luoghi che l’offerente raccolga i fondi necessari sottoponendosi a giri di questua.
Al di là delle diverse tradizioni locali, elemento costante della tavola di San Giuseppe è il pane plasticamente lavorato, un pane che, esteticamente qualificato come “speciale”, vede potenziata la sua già fortissima pregnanza sacrale attraverso un simbolismo che declina un linguaggio denso di suggestioni iconologiche.
La coesistenza di elementi immediatamente riferibili al culto cristiano, seppur nelle sue forme “popolari”, con elementi di evidente matrice agraria (frutti, animali, astri), insieme a tutti gli altri peculiari simboli rituali che hanno centro nella “tavola”, tradisce la lontana origine del rito e la sua prima essenza di microcosmo estraneo alle regole del “mondo”, luogo elettivo cioè del dialogo tra uomini e dèi, garanti questi della ri-produzione della vita.
Non è casuale, né spiegabile solo con motivazioni caritatevoli ed esigenze redistributive, che siano i poveri, spesso bambini poveri (santi, virgineddi, apostoli, ecc.), ad essere invitati presso le “tavole” e gli “altari” a consumare un pasto di altissimo significato simbolico la cui connessione con il ciclo della produzione e la richiesta di garanzia e abbondanza è esplicita. Siamo, infatti, nel momento di massima carestia, sono esaurite le scorte invernali.
Si deve dunque garantire un raccolto abbondante.
Ecco allora le offerte alimentari ai poveri/defunti, la condivisione aurorale del cibo, la redistribuzione simbolica e, soprattutto, lo spreco, ad auspicare e prefigurare la futura ricchezza e attestare a un tempo la vigente povertà attraverso l’esibizione di verdure di campo: unico cibo abbondante in un periodo di carestia.
Un’altra importante tradizione popolare siciliana è quella dei “Pupi Siciliani”, Pupi di varia forma e dimensioni (dipende da quale parte della Sicilia provengono) che tradizionalmente rappresentano scene cavalleresche.
Con il passare del tempo questa tradizione è stata profondamente modificata.
Ciò accade molto spesso per cause economiche (e quindi per un profitto turistico), che svuotano quasi del tutto il significato simbolico di questa tradizione popolare.
C’è però chi rinnova la tradizione adeguandola ai tempi.
E’ il caso di Angelo Sicilia, puparo e appassionato studioso della tradizione marionettistica siciliana, che ha ideato i “Pupi Antimafia”, un ciclo epico in cui gli eroi della lotta contro Cosa Nostra prendono il posto dei paladini di Francia.
Infine è importante dire che l’identità di un luogo rimanda a quelle dimensioni del sé che definiscono l’identità personale dell’individuo in relazione all’ambiente fisico attraverso un complesso insieme di idee, credenze, preferenze, tradizioni, sentimenti, valori e mete, consapevoli e inconsapevoli, unite alle tendenze comportamentali e alle abilità rilevanti per tale ambiente.
E’ perciò fondamentale mantenere e custodire in sé le tradizioni del proprio popolo, della propria terra di appartenenza, cercando però di condividere tutto ciò con altri popoli, arricchendo sempre più il nostro bagaglio culturale e quindi la nostra identità.
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